Massimo Bignardi

Modulate forme del racconto

Ci sono particolari momenti del proprio lavoro ove sentiamo il tempo maggiormente aderente al nostro essere: si avverte quella strana e incredibilmente magica sensazione di avvertire la “sostanza” autentica del tempo, di quel respiro che anima il quotidiano.

L’esperienza dell’ “Officina di Scafati”, maturata a metà degli anni ottanta, è stata per me certamente uno di questi momenti. Oggi non è tanto il ricordo di un periodo di euforica partecipazione al dibattito della critica, neanche quello di una sorta di stagione “iniziatica”, di apertura ad un impegno che avrebbe segnato le mie scelte, ad affiorare alla mente. E’, forse, la condizione aquietante (come dato di una nevrosi?) di questi anni che, con insistenza, mi riporta a guardare alle “occasioni mancate”, a riconsiderare una posizione una posizione che sostanzialmente non mi appartiene, o non appartiene al presente.

L’Officina di Scafati ha segnato la pagina più volte letta, quella che rileggo ancora oggi con nostalgia, ogni qualvolta misuro le piccole cose che capitano in questi nostri anni, così falsi, nei quali si spaccia per “nuovo” il vecchio vessillo. Questi ultimi anni novanta disegnano un orizzonte incerto, svuotato delle ideologie e appianato dal consenso della partecipazione omologante. Sulla pelle ci striscia, avrebbe commentato Pasolini, la luce banale dei tanti che assecondano senza freni i benpensanti acrobati della politica.

La congiuntura artistica di Scafati è stata per Angelo Casciello, Franco Cipriano, Luigi Pagano, Gerardo Vangone e Luigi Vollaro e per me il momento di una progettualità etica, di un modo di costruire il Mezzogiorno, e non solo, uno spazio del dibattito sia sulla contemporaneità, sia sul vivo tessuto antropologico, sul nostro essere radicati alle fertili e mitiche “terre” del Mediterraneo. Lo erano i dipinti di Franco Cipriano, così avvertiti dal respiro di un senso classico della modernità e che hanno anticipato di gran lunga le riflessioni sulla pittura, sulla sua “autentica pelle” e che oggi ritornano come pressanti interrogativi, di Luigi Pagano proteso con l’occhio nei gangli materici della sua terra, ai gesti che la manipolavano, così come le sculture e i dipinti di Angelo Casciello e Gerardo Vangone. Il primo con il collo slanciato oltre la grotta di Altamira, a scrutare il fervore della contemporaneità ora sollecitando forme da affiancare al suo corpo, come compagno di una storia che non è “sentito dire”, ora traducendo in pittura gli spazi lontani, quei luoghi dell terra, dei suoi cicli. Vangone aveva studiato a Roma; portava con sé l’euforicacontradizione della metropoli che traduceva prima in pittura, seguendo il registro scenografico della sagoma, poi in scultura attraverso grandi strutture, totem della modernità di un Sud ancora alle prese con i ritmi delle stagioni. Resta infine Luigi Vollaro, unicamente e testardamente scultore, tutto proiettato a rinsaldare un rapporto con la gestualità della cultura popolare, quella della ceramica, della terracotta e lo faceva negli stessi anni in cui Luigi Mainolfi e Ugo Marano ad alta voce declamavano tali indirizzi di scelta.

E’ mancato un “mastice”, un legame che andava oltre il desiderio di confrontarsi dialetticamente, per dare a questa esperienza lo slancio, così come l’hanno avuta situazioni molto simili, e guardo a quella romana della “Scuola di San Lorenzo”. A distanza di dodici anni v’è, però, la necessità di riprendere il tracciato di quella esperienza, partendo proprio dal lavoro di Luigi Vollaro che, con Franco Cipriano rappresenta l’elemento di raccordo con la fervida situazione culturale che, sul finire degli anni settanta e e nel corso del decennio successsivo la cultura napoletana ha fatto registrare.

Sono poco meno di venti anni che conosco Luigi Vollaro: lo conosco da quella sera che mi portò a vedere le sue incisioni, i disegni o meglio quei progetti che di lì a qualche anno avrebbe rimpaginato sulla viva materia dell’argilla.

Progetti tradotti dalle “incisioni”

E’ una componente ludica a stimolare Vollaro nella sua ricerca che, nei primissimi anni ottanta, lo porta ad un maggiore impegno, un vero e sentito coinvolgimento nell’alchimia dell’incisione: segno evidente è la cartella di acquatinte ed acquaforti dal titolo Progetti per il cielo: macchineacchiappanuvole pubblicata nel 1983.

Nella loro immediata definizione le tre incisioni che danno vita a questa cartella corrispondono ad effettive tavole di un progetto dell’immaginario; a veri e propri elaboratori tecnici, Per la costruzione di macchine capaci di sovvertire l’ordine naturale. E’ una proiezione progettuale che si evince dalla determinazione che impronta le linee, dai riferimenti a simbologie tratte dal codice grafico della tecnologia, dalla razionale ed attenta stesura degli elaborati che vanno dalla ricerca al definitivo “imprigionamento” della nuvola. Le linee sottili e nette si stagliano sul fondo piano dell’acquatinta; esse sottolineano l’attenta analisi degli appunti che fanno da preambolo ai progetti per le future sculture; dapprima con quelle ritagliate sagome, e poi modellate nuvole sospese sulle trasparenti lastre di plexiglas, opere che Vollaro espone a Napoli, nello stesso anno, in occasione della mostra “Materie di scultura”. In effetti nelle incisioni si evince il chiaro proiettarsi di una traccia di lavoro che l’artista ha nei suoi propositi per il futuro e che ritroviamo soprattutto sulle superfici dei teatrini realizzati fra il 1986 e l’88.

   Le incisioni di quegli anni segnano anche una decisa cesura con la retorica ecologista che aveva connotato le sue prime esperienze.

 

Sul corpo dell’argilla: le opere della metà degli anni Ottanta.

 

   Il segreto progetto della scultura moderna, affermava Melotti, non è quello di modellare la forma, bensì di modularla, concedere alla materia la possibilità di acquisire il ritmo nascosto del pensiero. Sull’idea di modulare e di non modellare insiste da anni Luigi Vollaro; dapprima, come abbiamo visto, con quella lunga e felice serie di terracotte che, nate come esplicazione formale delle incisioni dei primissimi anni ottanta, evidenzia il lavoro dell’artista di Scafati nel corso del decennio. E’, questo, un momento di grande attività che trova, con la partecipazione alla XI Quadriennale di Roma, ove espone L’albero della vita, una grande scultura in terracotta del 1986, un suo preciso inserimento nel dibattito artistico in corso in quegli anni in Italia. Vollaro riflette sulla possibilità di dare alla materia rossa dell’argilla una nuova superficie di segni, una sorta di pelle sensibile animata da un ductus sapientemente articolato sulla sottile materia, come ho avuto già modo di rilevare nella presentazione al catalogo della personale organizzata a Roma nel 1985.

   Nella citata mostra a Napoli del 1983, Vollaro espone alcune opere caratterizzate da una commistione tra naturale e tecnologico, sottolineato dal dialogo fra la terracotta e il plexiglas. Sono lavori nei quali è già presente una ricerca di forte attenzione ad una manualità figulina, legata alla sfera della cultura popolare campana, introducendo un segnismo gestuale sospeso in superfice e pienamente risolto, con vigore nell’attenzione di uno spazio-natura, nelle opere esposte nella personale a Roma al Centro Luigi Di Sarro del 1985. Una sfoglia di argilla, ridotta a foglio di pagina, sulla quale l’artista “incide” un segno vivo che assume una valenza crittografica: una plastica affidata ad una modulazione minima, di scrittura mentale e ricca di attenzioni ad un’immaginazione topografica, di luoghi della propria terra, di solchi, di anfratti, di frastagliate scogliere tracciate con maggiore corsività ed arricchite di elementi simbolici, scanditi da una partitura ben ritmata, disposta seguendo un ordine geometrico. La sua è un’attenzione che riflette sul valore assunto dalle patine, studiate per attivare in superficie una vivacità cromatica e per trasformare, agendo ad esempio sulle corrosioni prodotte dall’aceto, la terracotta in un nuovo campo, fatto di preziose ed organiche screpolature. La scultura è per Vollaro ancora il luogo ove è possibile animare la materia, caricarla attraverso la “coscienza artigiana delle mani” di una forza d’urto rispetto alle piacevoli ed ammiccanti trovate dell’industrial-design. Sono microscopie e macroscopie di una terra gioiosa, ubertosa; una madre generosa; è in fondo, la metafora di Era Argiva la cui aura da sempre sottende l’immenso bacino dell’immaginario popolare campano, ed in generale del Mediterraneo. Vollaro, a metà del decennio passato, declina con grande intelligenza e sensibilità la proposta di un attraversamento antropologico, in sincronia con il progetto che, negli stessi anni, tiene insieme i cinque protagonisti dell’ “Officina di Scafati”.

 

Sulle scene dei “teatrini”.

 

   E’ questa una traccia di lavoro sulla quale, sul finire del decennio scorso, Vollaro interviene apportando alcune modifiche, principalmente sul dettato strutturale: la forma lascia definitivamente il piano per trovare slancio nello spazio, assumere cioè i connotati di un corpo in dialogo con il proprio; presenza effettiva costruita su uno schermo ritmico, attraverso il quale l’artista ripropone una nuova ipotesi di modulazione della forma. La sagoma piana scompare definitivamente lasciando il posto ad un tuttotondo che struttura forme fatte derivare dal patrimonio antropologico ed arricchite da brani di frammenti onirici, di tracciati simbolici. Prima di questo momento v’è, però, una fase di elaborazione formale della scatola prospettica, una sorta di messa a misura dello spazio: una fase che è riassunta dal ricco e prolifico ciclo dei “teatrini”. Se la forma dell’albero permette all’artista di

muoversi liberamente fra il recupero di elementi arcaici, ma anche di esercitare quella vena ironica che è l’aspetto più popolare della personalità di Vollaro, i “teatrini” evidenziano la vera chiave per leggere l’universo delle “figure” narrative che sobillano il suo immaginario. In essi v’è l’idea di ricomporre nella scatola prospettica strane sagome, ritagli di possibili fiabe, scene rapite dallo sguardo così come era stato per Arturo Martini e, più tardi (nel corso degli anni cinquanta), per Melotti. E’ alle opere di quest’ultimo alle quali l’artista di Scafati pone maggiormente l’attenzione, attingendo quel desiderio di mettere in scena il racconto autobiografico che nello spazio chiuso della “scatola” ritrova un nesso con il presente. Alcune di queste opere, in particolare quelle realizzate tra il 1987 e l’88 quali ad esempio Sulla tomba del poeta, sono esposte nella mostra personale allestita allo Studio Caruso di Torino nel settembre del 1988.

 

Le opere di questi ultimi anni

 

   Le sculture realizzate a cavallo fra gli anni ottanta e novanta riprendono ed ampliano tali orientamenti di scelta: ora sono le forme di carcasse a sollecitare l’immaginario. Esse servono all’artista per meglio comprendere il valore che lo spazio interno, quello contenuto dalla materia, assume nel suo nuovo rapporto con la forma. Penso che siano questi i presupposti che Vollaro pone alla base delle esperienze condotte a partire dal 1992, data alla quale appartengono i primi Guerrieri: per essi sceglie una materia morbida e malleabile qual è il piombo. La tecnica è ancora quella, così come era stato per la terracotta, attinta al patrimonio della manualità artigiana della propria terra: tagli con saldature a stagno, lasciati vistosamente in evidenza, modulati da sottili segni di cera, paraffina bianca che anima ed arrichisce la superficie di corsive scritture, tracciati di una narrazione interiore. Le forme dei Guerrieri richiamano alla mente i reliquiari  che adornano gli altari barocchi delle chiese napoletane, anneriti dalla patina del tempo, dallo spessore della polvere incrostata, con le lunghe bave di cera che la devozione popolare lascia cadere come segno e testimonianza di un lontano legame. Vollaro ruota lo sguardo nello spazio originario del suo essere; attinge da esso racconti che trascrive nel corpo della forma, nella sostanza della materia. Un dettato che nel tempo, o meglio a partire dall’opera Memorie di un viaggio del 1995, perde ogni legame referenziale in virtù di una forma esemplificata, ricondotta nella purezza di una linea che disegna e modula la materia e lo spazio che la contiene. Il passo per l’approdo ad un nuovo “classicismo” è breve: la forma che ha perso ogni suo referente, sembra declinare lo spartito formale proprio di quegli oggetti (corpi) che abitano lo spazio della pittura metafisica, soprattutto di Morandi. Dettato che si rende palese nella bellissima scultura del 1996 dal titolo Omaggio a Lisippo. Il confronto fra il bianco del basamento, del drappo con le pieghe imprigionate dalla cera, con la plumbea luce del capo, grigia come quella riflessa dai cristalli di galena, attesta pienamente il desiderio di sondare le pulsanti arterie di una classicità che sottende il quotidiano tecnologico.Dettato compositivo che ritroviamo, come confronto fra l’oggetto e la sua ombra nella grande istallazione dal titolo Ex Voto del 1996: sono i segni-pittura delle ombre a far balzare nella spinta di un volo le “formelle” sospese alla parete. Sono, andando indietro, i segni di quei “progetti incisi” a trovare  spazio e materia, a prendere possesso della superficie per poi slanciarsi nello spazio, accompagnati ciascuno dalla propria ombra (dalla pittura) con la sua aura di astrazione.

   “Il piacere che dà la materia – avvertiva Bernard Berenson – e anche quello che dà il colore partecipa più della natura delle sensazioni immaginarie che delle effettive”.

   Sulla lastra di piombo, resa sensibile dai processi di rapida ossidatura, i segni assumono il carattere di impronte, così come accadeva per la umida sfoglia di argilla: essi non trascrivono i movimenti di emozioni, le tensioni dell’incontro con il mondo del magico. Propongono, innanzitutto, l’autonomo percorso della materia, il suo lungo viaggio che l’ha condotta al cospetto dell’artista: Vollaro ha il desiderio di comprendere (è ancora una posizione classica) le fasi, i ritmi, il tempo di questo viaggio: O meglio sottolinea la necessità di “leggere” e di “rileggere” il valore dei segni, così come consigliava Calvino per i libri, perché essi <<cambiano, nella luce di una prospettiva storica mutata>>.

 

testo in catalogo Galleria Comunale d'Arte Contemporanea, Scafati.   

 

 

Modulate forme di piombo.

 

Il segreto progetto della scultura moderna, affermava Melotti, non quello di modellare la forma, bensì di modularla, concedere alla materia la possibilità di acquisire il ritmo nascosto del pensiero. Sull’idea di modulare e di non modellare lavora da anni Luigi Vollaro; dapprima con quella lunga e felice serie di terracotte che, nata come esplicazione formale delle incisioni dei primissimi anni Ottanta, evidenzia il lavoro dell’artista di Scafati nel corso del decennio. E’, questo, un momento di grande attività che trova con la partecipazione alla XI° Quadriennale di Roma, un suo preciso inserimento nel dibattito in corso in quegli anni. Vollaro rifletteva sulla possibilità di dare alla materia rossa dell’argilla una nuova superficie di segni, una sorta di pelle sensibile animata da un ductus sapientemente articolato, è quanto scrivevo nella presentazione al catalogo della personale a Roma nel 1985, sulla sottile materia. Una sfoglia di argilla, ridotta a foglio di pagina, sulla quale l’artista tracciava un segno vivo che assumeva una valenza crittografica: una plastica affidata ad una modulazione minima, di scrittura mentale e ricca di attenzioni ad un’immaginazione topografica, di luoghi della propria terra, di solchi, di anfratti, di frastagliate scogliere tracciate con maggiore corsività ed arricchite di elementi simbolici, scanditi da una partitura ben ritmata ed a volte, disposta ad una partitura geometrica. Vollaro declinava con grande intelligenza e sensibilità la proposta di un attraversamento antropologico, in sincronia con il progetto che, negli stessi anni, teneva insieme i cinque protagonisti dell’"Officina di Scafati" (Casciello, Cipriano, Pagano, Vangone e lo stesso Vollaro), certamente una delle pagine più significative, segnate dalla nuova generazione dell’arte italiana.

Una traccia di lavoro, rispetto alla quale, sul finire del decennio Ottanta, Vollaro apportava alcune modifiche al dettato strutturale: la forma lasciava definitivamente il piano per trovare slancio nello spazio, assumere cioè i connotati di un corpo in dialogo con il proprio; presenza effettiva costruita su uno schema ritmico, attraverso il quale l’artista riformula una nuova proposta di modulazione della forma: la sagoma piana scompare definitivamente lasciando il posto ad un tuttotondo che struttura forme fatte derivare dal patrimonio antropologico ed arrichite da brani di frammenti onirici, di tracciati simbolici.

Le sculture realizzate a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta risentono di queste riflessioni: sono come una sorta di carcasse che servono all’artista per meglio comprendere il valore che lo spazio interno, quello contenuto dalla materia, assume nel suo rapporto con la forma. Penso che sono questi i presupposti che Vollaro pone alla base delle esperienze condotte a partire dal 1992, data alla quale appartengono i primi "Guerrieri": per essi sceglie una materia morbida e malleabile qual è il piombo.

La tecnica è ancora quella, così come era stato per la terracotta, attinta al patrimonio della manualità artigiana della propria terra: tagli con saldature a stagno, lasciati vistosamente in evidenza, modulati da sottili segni di cera, paraffina bianca che anima ed arricchisce la superfice di corsive scritture, tracciati di una narrazione interiore. Le forme dei "Guerrieri" richiamano alla mente i reliquari che adornano gli altari barocchi delle chiese napoletane, anneriti dalla patina del tempo, dallo spessore di polvere incrostata, con le lunghe bave di cera che la devozione popolare lascia cadere come segno e testimonianza di un lontano legame. Vollaro ruota lo sguardo nello spazio del suo essere; attinge da esso racconti che trascrive nel corpo della forma, nella sostanza della materia.

Un dettato che nel tempo, o meglio a partire dall’opera "Memorie di un viaggio" del 1995, perde ogni approccio referenziale per approdare ad una forma esemplificata, ricondotta nella purezza di una linea che disegna e modula la materia e lo spazio che la contiene. Il passo per l’approdo ad un nuovo "classicismo" è breve: la forma che ha perso ogni suo referente, sembra declinare lo spartito formale proprio di quegli oggetti (corpi) che popolano lo spazio della pittura metafisica, soprattutto di Morandi. Dettato che si rende palese nella bellissima scultura del 1996 dal titolo "Omaggio a Lisippo". Il confronto fra il bianco del basamento, poi del drappo con le pieghe imprigionate dalla cera, con la plumbea luce del capo, grigia come quella riflessa dai cristalli di galena, attesta pienamente il desiderio di sondare le pulsanti arterie di una classicità che sottende il quotidiano tecnologico.

Alle opere realizzate da Luigi Vollaro in questi ultimi anni la Galleria Spazio Temporaneo di Milano dedica, fino al 30 giugno, una mostra personale: in esposizione poco meno di dieci sculture, dai "Guerrieri" eseguiti tra il 1993 ed il 1994, al citato "Omaggio a Lisippo", fino alla grande installazione "Ex voto", del 1996.

"Non è – annota Luciano Caramel nel lucidissimo e puntuale testo introduttivo al catalogo - la vibrazione della materia che interessa Vollaro, non almeno una vibrazione unicamente finalizzata ad effetti luministici, di allegerimento formale. In quelle tracce, in quelle ferite della materia è fermata la rimembranza di eventi e realtà stratificate nel tempo, così come la scrittura che innervava le terrecotte…"

Sulla lastra di piombo resa sensibile dai processi di rapida ossidatura, i segni assumono il carattere di impronte, così come accadeva per l’umida sfoglia di argilla: essi, però, non trascrivono i movimenti di emozioni, le tensioni dell’incontro con il mondo del magico. Propongono, innanzitutto, l’autonomo percorso della materia, il suo lungo viaggio che l’ha condotta al cospetto dell’artista: Vollaro ha il desiderio di comprendere (è ancora una posizione classica) le fasi, i ritmi, il tempo di questo viaggio. O meglio sottolinea la necessità di "leggere" e di "rileggere" il valore dei segni, così come consigliava Calvino per i libri, perché essi "cambiano, nella luce d’una prospettiva storica mutata".

 

M. Bignardi in "Cronache del Mezzogiorno" 22 giugno 1997.

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